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di Luciano Garibaldi
Compie 60 anni il referendum monarchia-repubblica. Un avvenimento della storia italiana sul quale persistono seri dubbi. Molte le schede dei votanti mai aperte e ritrovate nelle cantine del Viminale. Le pressioni di Togliatti perché fosse proclamata la vittoria della repubblica.
[Da "il Timone" n. 52, aprile 2006]
La mattina del 2 giugno 1946 gli italiani si recarono alle urne (per la prima volta votavano anche le donne) per eleggere i membri dell’Assemblea Costituente e per partecipare al referendum che avrebbe dovuto decidere la forma dello Stato.
I seggi rimasero aperti fino al pomeriggio del 3 giugno.
Chi vinse? La monarchia o la repubblica? Ancora oggi, a 60 anni di distanza, c’è chi mette in discussione il risultato di quella consultazione.
Cercheremo di ricostruire i fatti con obiettività, inquadrandoli nella realtà politica italiana del tempo.
Umberto II era divenuto re d’Italia il 9 maggio di quell’anno, a seguito dell’abdicazione di Vittorio Emanuele III seguita dalla sua partenza per l’esilio ad Alessandria d’Egitto. Nettamente contrari alla monarchia erano il Partito comunista, il PSIUP (partito socialista di unità proletaria), il sindacato ancora unitario (CGIL), il Partito d’Azione, il Partito repubblicano. Per la libertà d’azione i liberali e la Democrazia Cristiana. Favorevole al re solo il piccolo PDI (Partito democratico italiano), le formazioni partigiane monarchiche (tra i loro massimi esponenti, le medaglie d’oro al valor militare Edgardo Sogno ed Enrico Martini «Mauri»), e - sia pure in modo non dichiarato - le Forze Armate, che si erano battute a fianco degli Alleati per fedeltà al giuramento prestato alla monarchia, e l’Arma dei Carabinieri. Ma non la polizia, largamente infiltrata da elementi ex partigiani comunisti. E non certo i superstiti del fascismo della Repubblica Sociale Italiana che, anzi, odiavano a morte il re e Badoglio. Assolutamente imparziale la Chiesa, che evitò sempre e comunque qualsiasi presa di posizione.
A Roma, i canali d’informazione sui risultati erano due. Uno, proveniente dalle prefetture, faceva capo al ministro dell’Interno, il socialista Giuseppe Romita. L’altro, proveniente dalle 31 circoscrizioni elettorali, confluiva verso il ministero della Giustizia di via Arenula, retto dal capo del Partito comunista Palmiro Togliatti, e da qui alla Suprema Corte di Cassazione, presieduta da Giuseppe Pagano, che aveva il compito di sommare i voti e proclamare il risultato finale.
Chiuse le urne, furono dapprima scrutinate le schede per la formazione dell’Assemblea Costituente, poi si passò a quelle referendarie.
Alle ore 8 del 4 giugno il ministro dell’Interno Romita redige un primo prospetto dei risultati e lo porta al presidente del Consiglio Alcide De Gasperi. Il prospetto riguarda 4000 sezioni su 35.000, tutte localizzate nel Centro Nord, tendenzialmente «repubblicano», e attribuisce alla repubblica una maggioranza del 65 per cento. Decisamente poco, se si considera che gli italiani del Sud e delle Isole sono nella stragrande maggioranza monarchici. De Gasperi, che personalmente è per la repubblica, vede nero e quella sera stessa informa il ministro della Real Casa, Falcone Lucifero, che si profila assai probabilmente la vittoria della monarchia. Il mondo politico romano entra in fibrillazione. Massimo Caprara, all’epoca segretario personale di Togliatti, ha ricordato, in un articolo pubblicato su Nuova Storia Contemporanea (n. 6 del 2002), che fu lui stesso a «passare» a Togliatti la telefonata di un Romita disperato. I risultati continuavano ad affluire al Viminale, questa volta anche dalle prefetture del Sud, e, al momento della telefonata, nel pomeriggio inoltrato del 4 giugno, la monarchia era ormai al 54 %. Fu a quel punto che Togliatti decise di agire direttamente sui funzionari del suo ministero addetti alle circoscrizioni delegando loro una «autonoma gestione dei voti», da comunicare alla Cassazione «al di fuori di ogni controllo». Se le parole hanno un senso: fate vincere la repubblica a tutti i costi.
Da un punto di vista storico, la cosa è del tutto logica: i funzionari erano infatti tutti uomini di fiducia del Guardasigilli, e quindi del PCI.
È a questo punto che, nella tarda mattinata del 5 giugno, De Gasperi va al Quirinale e informa personalmente il re Umberto II, affinché possa regolarsi, che la repubblica ha vinto. Umberto dispone immediatamente che la regina Maria José e i figli s’imbarchino per il Portogallo sull’incrociatore «Duca degli Abruzzi», lo stesso che ha trasportato Vittorio Emanuele III, dopo l’abdicazione, ad Alessandria d’Egitto.
Frattanto la stampa diffonde la notizia della probabile vittoria della monarchia e nel frattempo raccoglie le dichiarazioni polemiche e critiche dei sostenitori di re Umberto. Da sinistra si risponde per le rime. Pietro Nenni sull’«Avanti!»: «O la repubblica o il caos!».
Gli occhi di tutti erano puntati sulla Cassazione, cui toccava il compito di dichiarare ufficialmente chi aveva vinto e chi aveva perso. E fu sul tavolo della Cassazione che tempestivamente, prima del computo finale, l’onorevole Enzo Selvaggi, monarchico del Partito Democratico Italiano, fece recapitare un ricorso nel quale metteva in guardia i giudici: attenti, quello che conta è il numero dei votanti e non quello dei voti validi. Si riferiva, Selvaggi, subito seguito dall’onorevole Giovanni Cassandro, all’articolo 2 della legge 16 marzo 1946, istitutiva del referendum. L’articolo disponeva che avrebbe vinto la forma istituzionale (monarchia o repubblica) che fosse stata indicata «dalla maggioranza dei votanti» e non «dalla maggioranza dei voti validi», principio al quale invece, fino a quel momento, prefetture e funzionari di via Arenula si erano attenuti per il computo dei voti. Infatti, le rilevazioni erano state fatte soltanto sui voti giudicati validi.
Delle schede giudicate non valide (bianche, sporche o dubbie) non era stato fatto neppure il computo.
Poche ore dopo, sul tavolo della Cassazione giungeva un secondo ricorso, firmato dalla Medaglia d’Oro della Resistenza Edgardo Sogno, che chiedeva l’invalidazione del referendum essendo stati esclusi dal voto i residenti nella provincia di Bolzano e nella Venezia Giulia. Fu a questo punto che al primo presidente della Cassazione, Giuseppe Pagano, giunse una lettera di Togliatti che - come nota Franco Malnati nella sua opera La grande frode - forte del suo potere disciplinare sulla magistratura, gli ordinava di limitarsi alla lettura delle cifre dei verbali di ognuna delle 31 circoscrizioni elettorali e alla sommatoria complessiva «omettendo qualsiasi ulteriore pronuncia»: chiara infrazione - nota Malnati - della legge che invece prevedeva, da parte della Cassazione, «la proclamazione del risultato del referendum».
Lunedì 10 giugno, nella Sala Lupa di Montecitorio, il presidente Pagano comunica i risultati raggiunti: 12.672.767 voti per la repubblica, 10.688.905 per la monarchia. Mancano 118 sezioni (che comunque, data la loro esiguità numerica, non modificheranno nulla), ragione per la quale si rinvia la comunicazione definitiva ad una successiva seduta fissata per il giorno 18.
Martedì 11 giugno: gravissimi disordini a Napoli. La polizia apre il fuoco su un corteo monarchico. Nove morti. Disordini anche a Bari e a Taranto. Tutto il Sud, profondamente monarchico, è in subbuglio.
Mercoledì 12 giugno: Consiglio dei ministri in un clima di fortissima tensione. Togliatti, anche in seguito alle migliaia di denunce per brogli che continuano a piovere a cura dell’UMI (Unione Monarchica Italiana), dice testualmente: «Vi sono ricorsi che possono anche richiedere l’esame delle schede che tra l’altro non sono qui e forse sono distrutte» (lo ricorda Aldo Mola nel suo Storia della monarchia in Italia). In effetti, «sacchi e pacchi di verbali saranno poi rinvenuti nei luoghi più disparati» (ibidem).
Il 21 febbraio 2002, una giornalista del quotidiano Libero intervistò anche il padre gesuita Giuseppe Brunetta, il quale confermò le perplessità sulla legittimità dello spoglio e testimoniò che nelle cantine del Viminale egli stesso aveva visto le casse con le schede mai aperte.
Giovedì 13 giugno, ore 0,15: al termine della seduta, De Gasperi, in accordo con tutti i ministri eccettuato Leone Cattani, dichiarò di assumere i poteri di capo provvisorio dello Stato. Umberto II, subito informato, decise che sarebbe partito in aereo quel giorno stesso, alle ore 15, per l’esilio in Portogallo.
MA PER UMBERTO II FU UN COLPO DI STATO
Dal messaggio di Umberto II agli italiani, consegnato alla satampa al momento della partenza per l'esilio: «Questa notte, in spregio alle leggi e al potere indipendente e sovrano della magistratura, il governo ha compiuto un gesto rivoluzionario assumendo, con atto unilaterale e arbitrario, poteri che non gli spettano e mi ha posto nell'alternativa di provocare spargimento di sangue o di subire la violenza. Proclamo pertanto lo scioglimento del giuramento di feeltà al Re, non a quello verso verso la Patria, di coloro che lo hanno prestato e che vi hanno tenuto fede attraverso tante durissime prove».
Umberto II morì a Ginevra il 24 marzo 1983. Suo padre Vittorio Emanuele III era morto ad Alessandria d'Egitto il 28 dicembre 1947.
Bibliografia
Aldo Alessandro Mola, Storia della monarchia in Italia, Bompiani, 2002.
Franco Malnati, La grande frode. Come l'Italia fu fatta Repubblica, Bastogi, 1997.
© Il Timone
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