Prima del 1861, esistevano in Italia diverse fonti nobilitanti, con criteri e principî propri ai diversi Stati che formavano l’assetto politico del nostro Paese: dopo la nascita del Regno d’Italia, la Consulta Araldica accertò la nobiltà di circa ottomila persone o famiglie.
Poche altre furono accertate o nobilitate, fra il 1948 e il 1983, dalla Sacra Maestà di re Umberto II.
Altresì, si ritiene che ci siano oltre duemila famiglie in possesso di titoli non veri o convinte d’esser nobili. I falsi nobili sono coloro che equivocano sul reale e non acclarato stato di nobiltà, ostentando stemmi e corone ottenuti, in buona fede o per ignoranza dell’argomento, da “ principi ” dalle pretensioni fantasiose.
Un tempo, le famiglie nobili venivano ad accentrare in se stesse le alte cariche e il governo: è difficile definire con esattezza il ruolo storico della nobiltà, perché per un certo periodo il corso della storia dipese unicamente da tale ceto e allo stesso, quindi, vanno imputati eroismi e virtù, come ogni sorta di misfatto.
Oggi, la nobiltà ha un senso solo se unita all’esercizio virtuoso di quei valori tradizionali di cui è sempre stata espressione: il riconoscimento di un titolo nobiliare costituisce pertanto consacrazione di preesistenti caratteri ( che non può creare ex nunc ), conferendo un onore pubblico ed essendo punto di partenza per la formazione di una nuova stirpe nobile.
Attualmente, la concessione in Italia d’un titolo nobiliare dativo ( contrapposto a un titolo nobiliare nativo, cioè ereditato e posseduto sin dalla nascita ) avviene in virtù dei meriti riconosciuti alla persona e a seguito dell’esercizio delle prerogative sovrane di quanti, Principi Pretendenti secondo la storia, il diritto o l’accertamento giurisdizionale, ne siano giuridicamente titolari.
Tale concetto è stato assunto in ogni tempo dalle Case già regnanti: ove manchi la debellatio, cioè la volontaria e spontanea rinuncia a ogni diritto di pretensione, e i Principi siano in regola con le regole disciplinanti la successione secondo i propri ordinamenti, sorge la figura del principe pretendente al trono, in cui si accentrano le seguenti prerogative:
• il jus imperii, cioè la potestà di comando;
• il jus gladii, vale a dire il diritto all’obbedienza da parte dei sudditi;
• il jus majestatis, cui consegue il diritto a ricevere difesa e onori;
• il jus honorum, cioè il diritto di premiare, concedere onorificenze, dignità nobiliari e cavalleresche, o la facoltà di investire altri della potestà di concedere tali onori.
Tutte le dignità erano conferite, dunque, dal sovrano, che fu la fonte stessa dell’onore: omnes dignitates procedunt a principe, tamquam a fonte in qua omnes sunt.
Un Sovrano, ancorché abbia abbandonato o gli sia stato imposto di lasciare il suolo Patrio, conserva intatte quelle prerogative a cui non è di ostacolo la mutata posizione istituzionale, mentre le altre sono sospese: secondo la magistratura italiana – che ha fatto applicazione dei principî mutuati dal diritto internazionale - il jus honorum è diritto intangibile e imprescrittibile della Casa Sovrana.
Ne consegue che un titolo nobiliare ( con predicato, qualifica e stemma ) concesso oggi, se meritato, non diverge concettualmente da quelli assunti nei secoli trascorsi ( ancorché dativo e non nativo ), e ciò perché emanazione della prerogativa sovrana ( rex tantum nobilem facere potest ): il suo uso, la sua trasmissione, &c., sono regolati dall’atto esecutivo del decreto di investitura, vale a dire dalle “ Lettere Patenti ”.
Infatti, le sentenze che accertarono nei vari discendenti delle diverse dinastie la qualità nativa di pretendenti al trono riconobbero loro, per ciò stesso, la prerogativa di concedere titoli nobiliari e cavallereschi degli Ordini di pertinenza della propria Casa sovrana.
Per giungere a tale conclusione, la magistratura italiana si trovò nella necessità di risalire sino agli antichi ordinamenti e muovere, così, dal Medioevo, quando, nel pieno vigore del sistema feudale e nel successivo suo frazionamento in monarchie autonome, il fenomeno giuridico, collegato prevalentemente a norme non del tutto e uniformemente statuali, venne ad assumere una particolare fisionomia . Con lodevole diligenza, fu ricostruito in maniera storicamente puntuale l’ingenerarsi della sovranità come elemento essenziale dello Stato quale persona giuridica; della sovranità del Principe e delle prerogative dinastiche; del status particolare di cui gode un Sovrano, ancorché detronizzato, in quanto giuridicamente riconosciuto e tutelato dal diritto internazionale in cui necessariamente la sua figura si colloca, purché non debellato; della pretendenza al trono e dei diritti del principe ereditario.
Singolare e meritevole l’impegno profuso dalla nostra magistratura anche per la disamina di nozioni sconosciute all’attuale ordinamento repubblicano , che prevede che i titoli nobiliari ( qualifiche e prerogative annesse ) - privati del loro valore giuridico e, quindi, non più soggetti di diritto pubblico - rimangano in vita solo quale reminiscenza storica e con quel valore sociale loro derivante dal perdurante costume .
Da rilevare che i pronunciamenti poterono aver luogo solo collegando il particolare status del Sovrano e le sue prerogative e pretensioni, non tanto all’ordinamento repubblicano - che risulta indifferente all’uso del titolo nobiliare - quanto al diritto internazionale: “ Le prerogative sovrane, di natura personale, non abbisognano di ratifiche o riconoscimenti di sorta, per queste non è applicabile la disposizione XIV delle Norme Transitorie della Costituzione della Repubblica Italiana, che non riconosce i titoli nobiliari. E ciò in quanto tale norma vale solo per i titoli sorgenti da concessione, conferiti ai sudditi o cittadini di una nazione, ma non alle qualità sovrane, che nascono come diritto di sangue ”.
Tali sentenze, anche perché pronunciate in periodo repubblicano, destarono l’attenzione di eminenti commentatori e giuristi ( come del Professor E. Furnò, Rivista Penale del 1961, con l’imprimatur del Professor E. Eula, primo Presidente della Corte di Cassazione, e del Professor F. Ungaro, storico e giurista insigne; o del Professor G. A. Pensavalle De Cristofaro dell’Ingegno, “Questioni al vaglio della Magistratura ” ), dai quali, passim, riporto:
“ Il rigore di questa teoria, che ribadiva gli antichi insegnamenti sui diritti sovrani del Principe, confermandone la natura personale, la perpetuità e la ereditarietà, si venne via via attenuando in quella del “ diritto di pretesa ” ( o pretenzione ), per cui il Principe, se spodestato, conserva la valida pretesa ad ottenere l’effettivo esercizio del potere sul territorio, del quale fu privato. Questo più pacato indirizzo trova ancor oggi consensi.
“ Richiamandosi a scrittori recenti, quali Nasalli Rocca di Corneliano, G.B. Ugo, Bascapè, Gorino Causa, e Zeininger, scrive Renato de Francesco: “ La teoria del legittimismo, sfrondata delle estreme conseguenze alle quali l’hanno condotta alcuni suoi sostenitori, ed intesa invece come un diritto di pretesa, che nel Sovrano ex regnante resta, anzi inerisce in lui “ jure sanguinis ” e per diritto “ nativo ” in perpetuo, è perfettamente accettabile e soddisfa le esigenze dei giuristi e le coscienze dei popoli, anche in questo secolo dinamico ed eminentemente rappresentativo in campo politico ”.
“ In campo internazionale la “ sovranità ” non risulta attribuita esclusivamente allo Stato, comunque concepito. Lo dimostrano significativi esempi, di cui il più illustre e convincente è quello offerto dal Romano Pontefice, Capo della Chiesa Cattolica. Ridurre la figura del Romano Pontefice a quella di Capo dello Stato Città del Vaticano, significherebbe non solo sminuirne, ma addirittura negarne l’esistenza. E sarebbe sostenere cosa inesatta proprio sul piano internazionale. Il Romano Pontefice, quale Capo della Chiesa Cattolica, ha la massima potestà sovrana insita proprio nella Sua persona; tanto è vero che, nella vacanza della Sede Apostolica, nessun soggetto subentra né poterebbe subentrare nel sommo potere che trapassa direttamente al successore del Pontefice per una continuità morale. In Questo caso – è evidente – che la “ sovranità ” inerisce alla persona fisica e la segue comunque, non essendo vincolata al territorio, che invece per lo Stato costituisce elemento essenziale. Ovunque sia, il Romano Pontefice è Sovrano nella pienezza di tutti i suoi poteri e tale è riconosciuto non solo da i molti milioni di fedeli, sparsi nel mondo, ma anche da molte e potenti potenze estere, come dimostra il periodo storico dal 1870 al 1929, durante il quale, pur avendo Egli perduto il territorio dello Stato, conservò intatto il Suo alto prestigio nelle relazioni internazionali. La stessa Italia, dopo l’annessione di Roma, ne riconobbe la particolare posizione con la Legge 13 maggio 1871, n. 214, detta “ delle Guarentigie ”.
“ Il Pontefice prima del 1870 riuniva in sé la duplice qualità di Capo dello Stato Pontificio e di Capo della Chiesa Cattolica, venendo ad essere così l’organo di due specie di rapporti con gli Stati: rapporti di natura religiosa come Capo della Chiesa, e rapporti di natura giuridica e politica come Capo dello Stato Pontificio. Quindi nella Sua duplice qualità egli era fonte della Nobiltà da lui creata ”.
“ Nel 1870 il Pontefice fu privato del potere temporale e solo nel 1871 gli furono resi dal Governo italiano nel territorio del Regno gli onori sovrani, mantenute le preminenze d’onore riconosciutegli dai Sovrani cattolici, concesse tutte le prerogative onorifiche della sovranità e tutte le immunità necessarie per l’adempimento del Suo Altissimo Ministero. Se non ché tra queste prerogative onorifiche, di una delle più rilevanti, perché integra uno dei più importanti attributi della Sovranità, quella di concedere titoli nobiliari e onorificenze cavalleresche, non venne fatta menzione nella legge, per cui sorse il problema se il Pontefice avesse, anche dopo la caduta del potere temporale, la facoltà di conferire titoli nobiliari.
“ In proposito è bene ricordare che, anche prima del 1870, non sempre il Pontefice conferiva le onorificenze ed i titoli nobiliari nella sua qualità di Capo territoriale dei Suoi Stati, dato che anche quando faceva concessioni a stranieri, Egli agiva nella Sua qualità di Capo spirituale della Chiesa, e per ricompensare benemerenze verso la Chiesa ”.
“ La posizione del Sovrano spodestato si porta necessariamente sul piano internazionale, perché soltanto qui trova la sua concreta giustificazione, storica e politica, i cui motivi non sempre coincidono con quelli della sua giustificazione astratta, filosofica. Ed il problema giuridico si risolve in via positiva più che filosofica, considerando più la realtà, storica e politica, che non le spinte ideali, pur avendo queste ultime indiscutibile valore. Ma la realtà storica, cioè l’attualità del fenomeno, è la forza prevalente nelle relazioni internazionali, poiché ne influenza l’aspetto giuridico con la sua massa di vitali interessi ”.
“ La posizione del Sovrano spodestato trova tutt’ora sul piano internazionale elementi affermativi di non trascurabile importanza, perché concreti ed univoci. Il primo elemento è dato dal trattamento riservato al Sovrano ex regnante da parte dei Sovrani regnanti che ne accettano e rispettano le prerogative, portate dal diritto di nascita e di sangue. Il secondo elemento significativo proviene dall’atteggiamento degli Stati nei confronti delle Dinastie, da essi detronizzate. Di regola viene disposto l’allontanamento e vietato il ritorno del Sovrano ex regnante e dei suoi discendenti. E la possibile revoca di tale deliberazione richiede di massima la rinuncia al diritto di pretensione da parte del Sovrano spodestato. Tranne, si comprende, il caso di restaurazione. Con l’ordine di allontanamento e con il divieto di ritorno, imposti alla Famiglia ex regnante, lo Stato interessato, è vero, afferma la sua sovranità e nel contempo nega quella della Dinastia detronizzata, ma è anche vero che ne riconosce la pretesa. Se così non fosse, i provvedimenti presi dallo Stato non avrebbero senso. Né avrebbe senso subordinare alla rinuncia dei diritti di pretensione il ritorno in patria del Pretendente e della Famiglia. Sarebbe infatti assurdo chiedere la rinuncia ad un diritto inesistente ”.
“ L’allontanamento ed il divieto di ritorno, imposti alla famiglia ex regnante; la pacifica restaurazione della monarchia, voluta dallo Stato interessato; la concessione del ritorno in Patria, subordinata ai diritti di pretenzione, fanno sempre capo ad un atto giuridico, che, nel primo caso, è atto unilaterale di imperio, ma che, negli altri due, si risolve in un accordo di volontà fra due distinti, pari soggetti. La parità dei soggetti è posta in luce sia dall’indipendenza di ciascuno dei due rispetto all’altro sia dall’oggetto dell’accordo, che risolve il contrasto fra due pretese alla medesima sovranità. Contrasto, che, nel caso di restaurazione, si risolve a favore del pretendente, mentre, nel caso della rinuncia ai diritti di pretenzione ( compiuta debellatio ), si chiude a favore dello Stato ”.
“ Il patrimonio araldico dinastico, come già è stato posto in rilievo, sfugge all’ordinamento statuale, ancor quando il Sovrano è regnante, cioè Capo di Stato. A maggior ragione vi sfugge, quando il Sovrano non regna più e lo conserva, ovunque si trasferisca, esclusivamente per sé e suoi discendenti. Data la sua natura, non è pensabile che cada nella sfera di un qualunque ordinamento statuale o si trasferisca da un ordinamento all’altro, trasformandosi di volta in volta, a seconda del contenuto e dei limiti, portati da ciascuna cittadinanza; e che magari perisca per poi risorgere a seconda delle diverse legislazioni ”.
La magistratura italiana, nella commistione fra ordinamento repubblicano e norme del passato ordinamento nobiliare, adattò i diritti e le successioni nobiliari alla normativa vigente.
Ne consegue:
• il diritto di tutti i discendenti, maschi e femmine, alla trasmissibilità di qualunque prerogativa, titolo, qualifica o predicato, risultanti legittimamente in capo all’intestatario, senza tenere in alcun conto - in contrasto con l’art. 40 del R. D. 7 giugno 1943, n. 651, approvante il nuovo Ordinamento dello Stato Nobiliare Italiano, che prevede la successione nei titoli unicamente per l’agnazione maschile - le condizioni di trasmissibilità indicate nell’originaria concessione;
• quanto accertato viene considerato valido ai fini dello stato civile non con valore di titolo o predicato ma come parte del cognome;
• prevalenza, nella successione nei titoli, del grado sulla linea ( in contrasto con l’art. 54 del R. D. 14 giugno 1928, n. 1430, che, nella successione dei collaterali, preferiva la linea sul grado );
• possibilità di prova fornita per via giudiziaria del legittimo possesso di un titolo ( ipotesi esclusa dall’ordinamento nobiliare );
• diritto al Sovrano spodestato di concedere titoli, trasmissibile ai successori purché non debellati ( e non incentrato esclusivamente nel Sovrano già regnante, la cui posizione particolare è sottesa alla mancata rinuncia alla pretensione, che gli Stati ove le Dinastie hanno esercitato le loro sovrane prerogative non possono vanificare se non ottenendo il volontario abbandono del diritto, cioè rendendo perfetta la debellatio ).
Tutto ciò denota che il Sovrano spodestato conserva un ben preciso diritto, basato sull’ereditarietà, che in concreto si identifica nella pretenzione al trono perduto, ciò che lo legittima a conferire i titoli nobiliari, onorificenze e distinzioni cavalleresche appartenenti al patrimonio araldico della dinastia.
Tali diritti sono connaturati al concetto di “ Sovranità ”, sia pure allo stato potenziale, secondo il principio formulato dalla teoria del legittimismo. Invero, essi costituiscono un autentico “ privilegio ”, il quale non può avere altra teorica giustificazione al di fuori della “ Sovranità ” intesa come “ qualità personale del Principe ”.
La magistratura italiana riconobbe quindi il jus honorum ai Sovrani spodestati e ai loro discendenti, purché non debellati e in regola con le disposizioni regolanti la successione secondo il rispettivo ordinamento.
Lo Stato, nei limiti della sua influenza ( cioè del territorio nazionale ), può vietare al Sovrano spodestato l’esercizio dei suoi diritti, ma questo atteggiamento altro non rappresenta che un ulteriore indice del riconoscimento della particolare posizione della dinastia non debellata.
La rinuncia alla pretenzione, per essere valida, non deve essere necessariamente sancita da atto scritto, ma, secondo consolidata giurisprudenza, acquista rilevanza giuridica anche se manifestata con un semplice atto di pubblico omaggio al capo dello Stato subentrato ( in quanto declaratoria di sottomissione e implicito riconoscimento di altra sovranità, della quale, con tale atto, cessa la contestazione ): la debellatio, in quanto ricompresa nella sfera dei diritti disponibili, proietta i suoi effetti anche sulla futura discendenza.
Il Conte di Parigi, pretendente al trono di Francia, dovette abdicare ai diritti di pretensione per essere autorizzato a risiedere in patria. Ciò gli è stato richiesto dalla repubblica francese, che nel 1886 aveva allontanato la Famiglia già regnante. Il ritorno in Austria del principe Otto d’Asburgo, pretendente al trono, si è consentito solo in quanto il Principe pubblicamente rinunciò ai suoi diritti di pretenzione.
La repubblica italiana, nata dai brogli del referendum istituzionale del 2 giugno 1946, privò i membri e discendenti di quel ramo di Casa Savoia, già regnante, dei diritti elettorali, attivi e passivi; ne precluse l’accesso ai pubblici uffici; all’ex Re , alle consorti e ai discendenti maschi furono vietati l’ingresso e il soggiorno nel territorio nazionale ( Sua Maestà la regina Maria Josè poté far ritorno in Italia dopo che le fu riconosciuto il status di vedova non più consorte ).
Anche in quest’ipotesi, pure ammettendo che colui che nacque come S. A. R. Vittorio Emanuele di Savoia, principe di Napoli, non fosse ancor prima decaduto dalla successione al trono per le inequivocabili manifestazioni di volontà di S. M. re Umberto II, si è consentito il rientro in Italia dei discendenti dell’ultimo, compianto, re d’Italia solo a seguito della dichiarazione di fedeltà alla repubblica italiana da parte di Vittorio ed Emanale Filiberto di Savoia e, quindi, di pubblica rinuncia ai diritti di pretenzione.
Per chiarezza, ciascuna Casa Sovrana che abbia esercitato la sovranità su tutto o parte il territorio della penisola italiana vanta gli stessi diritti su di esso.
Questa lunga premessa vale a dimostrare l’assunto secondo cui, per il diritto internazionale, la concessione nobiliare prescinde da rapporti costituiti con la cosa pubblica e con la Patria di appartenenza del concessionario, per essere riservata a persone distintesi per azioni rivolte a favore della Casa Sovrana, per atti indipendenti di valore e di carità o per il riconoscimento di benemerenze, conseguite privatamente o pubblicamente, che abbiano toccato la sensibilità del principe pretendente.
Pertanto, una casata principesca, già sovrana, mantiene sempre il carattere di dinastia, il cui attuale Capo di Nome e d’Arme conserva titoli, prerogative e spettanze dell’ultimo sovrano spodestato, con il nome di principe pretendente, abbia ora il trattamento di Altezza Imperiale, Altezza Reale o di Altezza Serenissima.
In Italia, le Case Sovrane con queste prerogative sono diverse. Ricordiamo, fra le altre:
Savoia – Aosta;
Asburgo – Lorena;
Asburgo d’Austria d’Este;
Borbone – Parma;
Paternuense - Balearide;
d’Altavilla ( seu d’Hauteville ) Sicilia - Napoli;
Amoriense d'Aragona;
Angelo Comneno di Costantinopoli;
Paleologo di Bisanzio;
Focas Flavio Angelo Ducas Comneno De Curtis di Bisanzio Gagliardi.
Sul trono dello Stato Vaticano c’è Sua Santità il Romano Pontefice.
Quindi, la giurisprudenza italiana degli scorsi decenni ha statuito che i discendenti di qualsivoglia dinastia non debellata posseggono la fons honorum, e se è pur vero che le sentenze fanno stato solamente fra le parti, i loro eredi o aventi causa, è altrettanto indiscutibile il valore di precedente che le decisioni assumono nei confronti d’ogni caso analogo rispetto a una determinata dinastia.
A tal proposito, riproduco, a mero titolo d’esempio, estratti di sentenze emanate in epoca Regia e repubblicana riguardanti case sovrane che ottennero l’avallo della giurisprudenza: Focas Flavio Angelo Ducas Comneno De Curtis di Bisanzio Gagliardi; Lascaris Comneno Flavio Angelo Lavarello Ventimiglia di Turgoville; Paternò Castello di Carcaci; d’Altavilla ( seu d’Hauteville ) Sicilia Napoli ( innumerevoli sono le pronunce riguardanti altre Case Sovrane, fra cui Amoroso d’Aragona, &c. ).
Così, S. A. I. Don Antonio Focas Flavio Angelo Ducas Comneno De Curtis di Bisanzio Gagliardi, Porfirogenito della stirpe costantiniana dei Focas Angelo Flavio Ducas Comneno, nato a Napoli il 15 febbraio 1898 e deceduto in Roma il 15 aprile 1967, principe imperiale di Bisanzio, principe di Cilicia, principe di Macedonia, principe di Tessaglia, principe di Ponto, principe di Illiria, principe di Moldavia, principe della Dardania, principe del Peloponneso, &c. &c., duca di Cipro, duca di Epiro, duca e conte di Drivasto e Durazzo, &c. &c., fu confermato dalle sentenze 18-07-1945, n. 475, IV Sezione, del Regio Tribunale Civile di Napoli, e 07-08-1946, n. 1138, IV Sezione, del Tribunale di Napoli ( repubblica italiana ), erede di Costantino I Magno Imperatore e discendente legittimo della più antica dinastia imperiale bizantina vivente.
Infatti, la Regia sentenza 475/1945, cit., decise che il principe Antonio De Curtis-Gagliardi è “ discendente diretto mascolino legittimo della famiglia imperiale dei Griffo-Focas ( … ), con gli onori e diritti di Conte Palatino, oltre agli altri titoli, onori e diritti che gli competono per la predetta discendenza. ”
La sentenza 1138/1946, cit., ordinò all’ufficiale dello stato civile di Napoli di rettificare l’atto di nascita di Antonio De Curtis-Gagliardi, annotando in calce allo stesso atto che “ compete al neonato la qualifica di Principe ed il trattamento di Altezza Imperiale, quale rappresentante, in linea diretta, mascolina e legittima, della più antica dinastia imperiale bizantina vivente. ”
In seguito, il tribunale di Napoli, con sentenza 01-03-1950, definì S. A. I. Antonio “ erede e successore delle varie dinastie bizantine dell’Imperatore Costantino il Grande, ” ordinando all’ufficiale dello stato civile di Napoli di rettificare l’atto di nascita del Principe “ nel senso che vi si legga: Focas-Flavio-Angelo-Ducas-Comneno De Curtis di Bisanzio Gagliardi Antonio. ”
La citata sent. 1138/1946 ordinò “ altresì all’Ufficiale dello Stato Civile di Roma di annotare in calce all’atto di nascita della figlia del Principe Antonio De Curtis, a nome Liliana, la qualifica di Principessa. ”
Infine, con sent. 1° marzo 1950, il tribunale civile di Napoli, IV sezione, ordinò “ all’ufficiale dello stato civile di Roma di procedere a simile rettifica del cognome della Principessa Liliana de Curtis Griffo Focas, figliuola di detto Principe Antonio ”, nel senso che vi si legga “ Focas Flavio Angelo Ducas Comneno De Curtis di Bisanzio Gagliardi, ” e affermò che “ gli Imperatori Bizantini erano successori ed eredi di tutti i diritti despotali, onori e titoli degli Imperatori che li avevano preceduti. Pertanto, non v’ha dubbio che il ricorrente, quale unico erede e successore vivente delle varie dinastie bizantine, dall’Imperatore Costantino il Grande in poi, riassumendo nella sua persona tutti i diritti, onori e titoli che essi godevano, abbia anche il diritto incontestabile di riprendere tutti i titoli di cui le loro famiglie si fregiavano. ”
Analoghe considerazioni valgono per lo stralcio della sentenza 10-09-1948, n. 5143 bis, n. 23828/48 R. G., della VII sezione della pretura di Roma, che riconobbe a Sua Altezza Imperiale il principe Don Marziano II Lascaris Comneno Flavio Angelo Lavarello Ventimiglia di Turgoville la spettanza dei titoli di Basileus titolare di Costantinopoli; Capo della Casa Lascaris Comneno; Despota di Nicea e della Bitinja; erede Porfirogenito dei Nemanja Paleologo; Pretendente all’imperiale trono di Bisanzio e di erede della dinastia del Sacro Impero di Oriente ovvero dell’Augustissima Comnenia dei Principi Lascaris, che si ricongiunge all’imperatore Costantino il Grande, nonché la capacità di compiere atti di sovranità quale Porfirogenito e continuatore di una Augusta Stirpe già Sovrana ( e per di più spodestata senza debellatio, che, oltre a conferire gradi cavallereschi dell’Ordine del suo patronato, concede anche titoli nobiliari e di volontaria giurisdizione ).
La Pretura, in tale sentenza osservò altresì, a proposito della tesi della continuità delle prerogative delle Famiglie Sovrane ( Famiglie da molto tempo spodestate dei loro Troni ), che la prerogativa cosiddetta regia è una prerogativa jure sanguinis che ha solo il Re e Principe sul Trono, che trasmette ai suoi successori anche quando, per vicende varie, vengono privati del possesso territoriale e che si conservano nei secoli anche quando la dinastia ha perduto praticamente il Trono ed è stata deposta legalmente. Si arguisce – continua la sentenza - che il Capo della Casa Lascaris, discendente dalla dinastia dei Flavio Comneno Ducas estromessa con la forza, conserva anche in esilio tutte le prerogative dei Sovrani Regnanti e può compiere ogni atto che gli compete, e gli atti che egli compie hanno valore giuridicamente.
Altro estratto proviene dalla sentenza 27-06-1949, n. 114, n. 217/49 R. G., della pretura di Vico del Gargano, che riconobbe che la famiglia imperiale dei Lascaris Comneno Flavio Angelo Lavarello Ventimiglia di Turgoville, impersonata da S. A. I. Don Marziano, Basileus Titolare di Bisanzio, può conferire investiture nobiliari, avvegnaché le Dinastie destituite con la forza conservano intatte tutte le loro prerogative e quindi esse di pieno diritto possono concedere titoli nobiliari ai loro fedeli o alle persone degne e meritevoli; quello che giova e sorregge – osserva la sentenza - è il decreto di nomina, cioè l’atto potestativo di conferimento; per conseguenza come del resto riconosciuto in altri casi dalla Magistratura italiana ( cfr. Ordinanza 28 maggio 1947 del Tribunale di Napoli ) la Dinastia Lascaride Angelica Flavia Comneno Ducas, estromessa con la forza dai fastigi del potere imperiale, conserva tutte le prerogative dei sovrani regnanti.
Tre sentenze riguardanti la dinastia Paternuense Balearide hanno confermato la consanguineità con la Casa d’Aragona – Majorca - Sicilia e la legittimità della relativa fons honorum.
La prima, della pretura unificata di Bari, 03-03-1952, n. 485, divenuta irrevocabile nelle forme di legge, ha accertato che “ la Famiglia Principesca dei Paternò ebbe origine da Giacomo I il Conquistatore, discendente dai conti di Guascogna, del Re di Navarra e dei Re di Castiglia ”; la seconda, 05-06-1964, n. 119, del Tribunale Penale di Pistoia, sezione unica, ha espressamente confermato la legittimità della fons honorum del rappresentante massimo della Real Casa Paternò, in quanto la legittimità del pretendente della famiglia Paternò deriva dalla discendenza legittima e provata di un membro della Real Casa d’Aragona; la terza, sentenza arbitrale 08-01-2003, n. 50, dichiarata esecutiva con decreto del Presidente del Tribunale Ordinario di Ragusa 17-02-2003, n. 177, ha dichiarato che competono al Capo della Real Casa “ le prerogative sovrane connesse allo jus majestatis ed allo jus honorum, con la facoltà di conferire titoli nobiliari, con o senza predicato, stemmi gentilizi, titoli onorifici e cavallereschi relativi agli ordini ereditari di famiglia; la qualità di soggetto di diritto internazionale e di gran maestro di ordini non nazionali ai fini della legge 3 marzo 1951, n. 1978 ”.
Le sentenze del Tribunale di Napoli, IV sez. civ., 30-11-1949, n. B/4549/49, e I sez. civ. 30-07-1956, n. B/2337/56, accertarono nei principi Mario e Cesare le qualifiche “ di Principe Reale d’Altavilla (d’Hauteville) e di Principe di Sangue porfirogenito, Principe Reale di Sicilia e di Napoli, Duca delle Puglie, Duca di Sicilia, Conte di Lecce, Duca di Capua, Principe di Taranto, Principe di Bari e di Principe di Antiochia, quale legittimo pretendente al trono di Napoli e di Sicilia, con trattamento di Altezza Reale, ed erede e capo della Augusta Reale Dinastia Normanna e di Sicilia ”, in quanto “ i Cilento (seu Cilenti, de Cilento) sono la continuazione genealogica e storica del ramo superstite dei Normanni d’Altavilla di Sicilia e di Napoli e precisamente i discendenti di Guglielmo d’Altavilla, Conte di Principato (l’attuale regione del Cilento) uno dei figli di Tancredi d’Hauteville. Essendo tutto ciò in questa sede provato, ne consegue che il ricorrente è il capo della casa Normanna d’Altavilla di Sicilia e di Napoli e pertanto a lui spetta, per sé e per i suoi successori maschi e femmine all’infinito tutte le qualifiche, prerogative, attributi e trattamenti che gli competono. Pertanto il ricorrente ha diritto alla qualifica di Princeps Natus ovvero Principe di Sangue, oltre a tutte le titolarità o titolature che gli competono quale soggetto di diritto internazionale quale depositario di tutti i diritti della famiglia e di curatore della sua casa, ai troni di Sicilia e di Napoli e dell’Italia Meridionale ”, il dispositivo della sentenza in esame, rettificando gli atti dello stato civile, ordinando che il ricorrente vi risulti “ S.A.R. il Principe Reale Cesare d’Altavilla (seu d’Hauteville) Sicilia-Napoli ”.
Infine, oltre sedici sentenze di Pretura e Tribunale, Regie e repubblicane, hanno accertato la legittimità della Casa Imperiale Amoriense d’Aragona e dei suoi ordini cavallereschi; più di dieci sentenze di tribunali repubblicani hanno riconosciuto titoli e predicati della medesima Casa.
Si può ragionevolmente concludere tale disamina affermando, sulla scorta di quanto affermato dalla giurisprudenza italiana, che un sovrano potrà anche essere stato privato del trono - e financo bandito dallo Stato su cui esercitò la sovranità - ma non potrà mai essere spogliato della sua qualità nativa: in questa fattispecie, ha origine il pretendente al trono, che mantiene intatti quei diritti della sovranità al cui esercizio non è di ostacolo la mutata posizione giuridico-istituzionale, fra cui il jus honorum, cioè il diritto di conferire titoli nobiliari e gradi onorifici di ordini cavallereschi di collazione ed ereditari facenti parte del patrimonio dinastico della famiglia ( oltre che poter creare altri Ordini ).
Quindi, l’opinione invalsa che considera autentici nobili solo coloro che risultino iscritti in repertori, albi, libri d’oro, &c., è del tutto infondata, poiché essi sono, invero, parziali e incompleti.
Infatti, ogni Casa Sovrana, all’epoca in cui esercitò la propria sovranità, pretendeva dai sudditi di nobile status - per il riconoscimento dei titoli nobiliari di concessione di altra fons honorum - che sottostessero a certe disposizioni, subordinandone la riconferma al rispetto di condizioni anche economiche.
Anche i re di Casa Savoia richiedevano la corresponsione di una tassa. Talvolta, malgrado il pieno diritto, proprio il pagamento della gabella divenne discriminante per l’accertamento dei propri titoli, e divenne quindi frequente l’esclusione dai predetti elenchi ( peraltro tuttora pubblicati da private associazioni ) di persone pienamente legittimate.
È evidente che né l’inclusione né esclusione di un titolato da qualsivoglia elenco ha valore probante, perché da una parte la nobiltà non si perde ma resta vincolata nei secoli alla famiglia, e dall’altra ciò che realmente conta è la verifica dell’effettiva concessione del titolo e della legale pertinenza di esso all’individuo o alla famiglia, da comprovare mediante documentazione storica, genealogica, giuridica e canonica: occorre, cioè, essere in possesso dell’atto potestativo di concessione ( lettere patenti e decreto ), che dimostri il diritto alla nobiltà vantata.
Oggidì, non riveste alcun rilievo giuridico l’registrazione a elenchi di carattere privato, fra cui il Libro d’Oro della Nobiltà Italiana, curato dal Collegio Araldico, in quanto i titoli annotati ai sensi dell’Ordinamento dello Stato Nobiliare Italiano sono esclusivamente quelli concessi o riconosciuti dai Savoia ( e dal Vaticano, annotati in conseguenza del Concordato dell’11 febbraio 1929 ).
Quindi, se la costituzione repubblicana ha inteso lasciare che i titoli nobiliari rimanessero come mero ricordo storico o che i relativi predicati valessero come parte del nome, la magistratura, arbitrale e ordinaria, rimane attualmente l’autorità cui è riservato il compito e che ha la potestà di accertare la legale esistenza in una determinata famiglia - e di dichiararne la relativa spettanza – dei titoli nobiliari ( stemmi, predicati e qualifiche ), antichi o ex novo.
Se non vi sia la certezza di un patrimonio nobiliare preesistente, ma sufficienti indizi, si può disaminare la possibilità di proporre a una della Case Sovrane dianzi citate una sanatoria.
Invece, in mancanza assoluta d’un precedente riconoscimento nobiliare, il Consiglio Araldico Italiano – Istituto Marchese Vittorio Spreti, per specifica esperienza, già ampiamente avvalorata e comprovata sin da oltre la prima metà del secolo scorso, può proporre a diverse Case Sovrane ( i cui capi di Nome e d’Arme, in forza di sentenza, sono principi pretendenti al trono oltre che soggetti di diritto pubblico internazionale, e, quindi, giuridicamente dotati della prerogativa della fons honorum ) la concessione ex novo di titoli, stemmi, predicati e della qualifica di Don e di Donna.
A sanatoria e concessione può seguire una sentenza pronunciata dal Tribunale Arbitrale Internazionale, composto da magistrati arbitrali, giudici di I grado con funzione di accertamento del titolo e dell’annesso predicato, stemma e qualifica.
Infatti, come studiosi del diritto nobiliare e attenti conservatori delle tradizioni della storia patria, siamo riusciti a coniugare la realtà giuridica con la virtù nobiliare: il Tribunale Arbitrale Internazionale, costituito nei modi e nei termini della legge italiana e del diritto internazionale, accerta con sentenza la spettanza in capo agli aventi diritto del titolo nobiliare, del predicato, della qualifica e dello stemma gentilizio. Questa pietra miliare costituisce una verità incontestabile, rendendo giustizia alla nobiltà che vanta un’eredità d’onore e un patrimonio di virtù.
In tale evenienza, il presidente di un tribunale ordinario della repubblica italiana, dopo aver accertato la regolarità formale della procedura attestante il riconoscimento in capo alla parte del status nobiliare de quo, omologa la sentenza pronunciata dal suddetto tribunale arbitrale internazionale e la rende esecutiva, con decreto, nel territorio della repubblica italiana, disponendone altresì, ove richiesto, la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della Regione.
Secondo la legge italiana, la sentenza pronunciata dal Tribunale Arbitrale Internazionale assume la forza di sentenza di primo grado dopo l'emissione del decreto d’esecuzione da parte del presidente del tribunale ordinario ( ex art. 825 del codice di procedura civile ). L'estratto della sentenza e del decreto del presidente del tribunale ordinario possono, come detto, essere pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale.
La predetta pronuncia giurisdizionale, dopo che sia divenuta irrevocabile secondo la legge italiana, può avere esecuzione ( salve le limitazioni stabilite dal diritto internazionale ), nel territorio degli Stati aderenti alla Convenzione di New York del 10 giugno 1958 ( più di cento Nazioni ), resa esecutiva in Italia con legge 19 gennaio 1968, n. 62. La sentenza, altresì, può stabilire la trascrizione del titolo e del predicato nobiliare sugli atti di cresima e di battesimo, secondo facoltà, e, in certi Stati, su documenti anagrafici ( passaporto e carta d’identità ).
Quindi, la procedura più garantita consiste nel riconoscimento o nella concessione al postulante d’un patrimonio nobiliare e nell’accertamento, con sentenza arbitrale e conseguente omologa della magistratura ordinaria italiana, della giuridica spettanza di esso in capo al titolare.
Attualmente, in qualità di consulenti, possediamo alcuni mandati per titoli nobiliari di chiara fama ( alcuni di dinastia imperiale ) appartenenti o appartenuti a ordini cavallereschi non nazionali e ad antiche e cospicue famiglie, le quali, attraverso un atto di aggregazione familiare nobiliare avanti a un notaio, possono refutare per degna continuazione il status corrispondente ai relativi titoli nobiliari, predicati, qualifiche e stemmi, con eventuali passaggi magistrali.
Siamo altresì in grado di proporre adozioni civili-legali con l’acquisizione del cognome di importanti dinastie reali-imperiali ovvero di casate nobiliari, italiane e straniere. A tal fine, è stato concluso un accordo con un importante studio legale con sedi a Berlino e Potsdam per l’espletamento delle pratiche concernenti la procedura di adozione internazionale, con effetti civili, da parte di importanti famiglie nobili, disciplinata combinatamente dalla legge tedesca ( Bürgerliches Gesetzbuch BGB, §§ 1767 - 1772 ) e dalla relativa convenzione internazionale ( conclusa il 29 maggio 1993 ).
Tale adozione è valida in tutti gli Stati firmatari della convenzione de qua ( fra cui l’Italia; nel sito http://hcch.e-vision.nl/index_en.php?act=states.listing, c'è l'elenco degli Stati aderenti ), cui consegue l'assunzione del cognome della famiglia adottante, comprensivo del titolo nobiliare cognomizzato: infatti, dopo la Costituzione di Weimar, in Germania il titolo costituisce parte integrante del cognome.
L'elenco delle famiglie nobili adottanti ( più di ottanta: Freiherr significa barone; Graf conte, Prinz principe, &c. ) è confidenziale: siamo tuttavia autorizzati a indicarne alcune ( Graf Bernadotte af Wisborg, svedese, parente del re di Svezia; Graf von Hardenberg; Graf von Thun und Hohenstein; Freiherr Treusch von Buttlar-Brandenfels; Prinz von Schoenburg-Waldenburg ).
A esempio, ove adottato dal conte Bernadotte af Wisborg, ne deriverebbe sui registri dello stato civile italiano e sulla carta d'identità il nuovo cognome di Mario Graf Bernadotte af Wisborg Rossi.
Per concludere, date tutte queste premesse, posso affermare che la nobiltà è viva e vive con noi tutti i giorni, in ogni sua sfaccettatura: dal rinvenimento di un titolo a una concessione ex novo; dalla refuta di un titolo all’accertamento giudiziario e pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale; dalla cognomizzazione di un titolo e di un predicato alla adozione, con acquisizione del cognome della famiglia nobile adottante.
Non più segretezza e paura o divieto d’avvicinarsi a un titolo nobiliare o d’investigare le “ prove di nobiltà ”, bensì libertà d’indagine storica, entro una cornice di serietà e intangibilità giuridiche.
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